A pochi passi dalla stazione di Belgrado, in due parchi pubblici, sono accampati da più o meno un anno persone in transito. Dalla Macedonia, dalla Grecia e dalla Bulgaria, verso l’Ungheria e la Croazia. Puntualmente respinte, puntualmente fanno rientro a Belgrado. Sono per la maggior parte afghani, ora. Li potete vedere: bambini, adolescenti, ragazzi. Qualche signora.
I siriani stanno al confine, perché hanno più possibilità di passare. Gira voce che l’Ungheria faccia passare trenta persona al giorno, preferendo famiglie, donne e bambini.
Gli altri tornano qui. E raccontano di spray al peperoncino, manganelli, luci puntate, zaini pesantissimi. Detenzioni, botte.
“Ieri abbiamo corso. Un cane mi ha morso, qui”, e indica un polpaccio. “Com’è oggi al confine? Fanno passare?”.
C’è un ragazzo di tredici anni. Solo.
Il terreno dei parchi ora è stato rivoltato dall’amministrazione e recintato. Lavori, si dice. Di fatto non ci si può più accampare, se non in qualche angolo: più precari di prima.
17.30 è l’ora della fila per un pasto caldo. Uomini da una parte. Donne e bambini dall’altra. Da un anno è così. Domani, nessuno può sapere.