Le conclusioni alle quali è pervenuto il Consiglio europeo nei giorni scorsi, in merito alla riforma del regolamento di Dublino, accontentano tutti, ma non servono a nessuno. Le trovate a questo link. Sin dall’inizio si ribadisce la necessità di «un controllo più efficace delle frontiere esterne dell’UE» e si rivendica il successo dell’accordo tra l’Unione e la Turchia, descritto come «una serie di misure ai fini del controllo efficace delle frontiere esterne dell’UE», grazie al quale si è ottenuto «un calo del 95% del numero di attraversamenti illegali delle frontiere». Per quanto riguarda invece la rotta del Mediterraneo centrale, quella che più ci interessa, si confermano le politiche adottate finora, dichiarando che l’UE «accrescerà il suo sostegno a favore […] della guardia costiera libica», specificando che «tutte le navi operanti nel Mediterraneo devono rispettare le leggi applicabili e non interferire con le operazioni della guardia costiera libica». Si riconosce perciò pienamente il ruolo della Guardia costiera libica – che non deve essere disturbata dalle Ong… -, nonostante le ripetute violenze operate sui migranti tratti in salvo e le documentate sovrapposizioni con milizie, e nonostante sia ormai acclarato che la Guardia costiera libica opera respingimenti collettivi al nostro posto. Viene inoltre ipotizzata la costruzione di«piattaforme di sbarco regionali» dove operare «distinzioni tra i singoli casi»: mi hanno ricordato gli “hotspot galleggianti”, idea di Angelino Alfano, dove di fatto selezionare sulla base della nazionalità potenziali beneficiari di protezione.
Il punto di cui si è più parlato di più, però, è il sesto, che recita:
Nel territorio dell’UE coloro che vengono salvati, a norma del diritto internazionale, dovrebbero essere presi in carico sulla base di uno sforzo condiviso e trasferiti in centri sorvegliati istituiti negli Stati membri, unicamente su base volontaria; qui un trattamento rapido e sicuro consentirebbe, con il pieno sostegno dell’UE, di distinguere i migranti irregolari, che saranno rimpatriati, dalle persone bisognose di protezione internazionale, cui si applicherebbe il principio di solidarietà. Tutte le misure nel contesto di questi centri sorvegliati, ricollocazione e reinsediamento compresi, saranno attuate su base volontaria, lasciando impregiudicata la riforma di Dublino.
In sintesi, si certifica che il regolameto di Dublino non sarà toccato (nonostante la riforma votata dal Parlamento europeo, organo rappresentativo dei cittadini europei) e, soprattutto, si offrono a tutti i governi degli stati membri delle scappatoie per poter sostenere in patria di aver ottenuto grandi risultati al vertice. C’è chi rivendicherà l’impegno assunto da altri paesi, c’è chi rivendicherà la natura volontaria di qualsiasi impegno. L’attenzione dei media si è concentrata su questo punto, eppure la volontarietà è indicativa del sostanziale fallimento dello strumento. Ecco perché l’attenzione andrebbe concentrata invece sui primi punti dell’accordo, sulla ribadità volontà di sigillare le frontiere europee col risultato di bloccare i migranti lungo le rotte migratorie, nei Balcani, in Turchia e in Libia, o addirittura nei paesi dai quali scappano, come la Siria, dato che il rafforzamento delle frontiere esterne dell’Europa genera un effetto domino sulle frontiere degli altri paesi.
Non si tratta, in fondo, che del classico paradosso del nazionalismo: più sosteniamo di voler chiudere le nostre frontiere, più lo sosterranno anche altri e via discorrendo. Per fare un esempio, lo stesso Matteo Salvini, dopo aver incassato la risposta negativa da parte del governo di Tripoli alla costruzione di hotspot al confine meridionale libico, ha dovuto riconoscere il legittimo diritto della Libia a proteggere le proprie frontiere. Il medesimo “diritto” dovrà riconoscerlo a Austria, Svizzera, Francia e agli altri paesi europei: sostenere l’opzione ungherese della chiusura dei confini non è, anche per ragioni utilitaristiche, la strada più intelligente, ma la più stupida – a meno che l’obiettivo non sia un altro e cioè mettere in crisi l’intera Unione, utilizzando come leva i richiedenti asilo. Il nostro governo prosegue con decisione su questa strada, così come confermato dal «Piano Salvini» rielaborato dalla Commissione bilaterale italo-libica e che «prevede la fornitura di gommoni, equipaggiamenti, veicoli e altro materiale per Guardia costiera, Marina e Guardia di frontiera libiche». Un piano perfettamente in continuità con l’operato dell’allora ministro Marco Minniti.
La lotta alle Ong, infine, sta mostrando le sue conseguenze. Con il progressivo allontanamento delle loro imbarcazioni dalla zona di ricerca e soccorso sono aumentate drammaticamente le morti in mare. Il 2 luglio sono stati registrati 114 dispersi, il primo luglio 63, il 29 giugno circa 100. I dati raccolti dall’Organizzazione mondiale per le migrazioni parlano di 564 morti nel mese di giugno: nello stesso mese non ne erano mai stati registrati così tanti. Anche il tasso di mortalità rispetto ai tentativi di traversata ha raggiunto livelli mai visti prima: nel mese di giugno 6848 persone sono sopravvissute (2988 sono giunte in Europa, 3860 sono state respinte in Libia), il che vuol dire che circa il 7,5% delle persone che hanno provato ad attraversare il Mediterraneo sono morte. Nel 2016 approdarono in Italia 181mila persone e ne morirono nel Mediterrano centrale 2501, equivalenti a circa l’1,5%. Nel giugno del 2016 e del 2017 il tasso di mortalità fu di poco superiore al 2%.