Il post precedente, nel quale invitavo i miei 25 lettori a mettersi In cammino con me, ha suscitato l’interesse e la curiosità di alcuni di voi. Ne sono molto felice: non capita tutti i giorni di riuscire ad aprire un dialogo con i propri lettori.
«Nel maggio del 2015 – mi ha scritto Valerio Moggia – mi ritrovai con un amico a percorrere a piedi la costa ligure, partendo dalla Francia: è qui che entra in gioco la mia modesta esperienza del confine. Mentre raggiungevamo la nostra partenza, a Mentone, facemmo sosta a Ventimiglia: avevo scoperto, leggendo il giornale di quella mattina – abbandonato dalla compagna di vagone prima che scendesse – che proprio il giorno prima il governo della Costa Azzurra aveva deciso di mandare i gendarmi a pattugliare i treni provenienti dall’Italia per bloccare i migranti che entravano in Francia. Sul subito mi parve una fastidiosa trovata razzista senza speranza e non ci diedi molto peso, ma nei quaranta minuti che passai nella piazza della stazione di Ventimiglia – invasa da ragazzi di origine africana magri quanto i loro zaini, lì in sospeso, in attesa di un miracolo che consentisse loro di passare un confine che legalmente non doveva più esistere – provai un’orribile sensazione di smarrimento, e percepii che quella situazione era ben più grave di quanto pensassi. La crisi europea dei migranti partì da lì, ma sarebbe divenuta un tema da prima pagina solo una settimana più tardi».
Quel confine, come tutti i confini, è un confine arbitrario: vale solo per alcuni, non per tutti. «Sul treno – prosegue infatti Valerio -, alla prima fermata oltre il confine francese, vidi i gendarmi passare in rassegna i vagoni dall’esterno, camminando lungo il binario. A ogni vagone si chinavano e guardavano dentro: non salirono sul treno, perché avevano visto che c’erano solo bianchi. Il giorno seguente, il mio amico e io ci alzammo poco prima dell’alba e iniziammo a camminare, rientrando in Italia da Mentone e procedendo verso il Levante, come da programma. Ricordo che, alle prime luci del giorno, passammo la frontiera. Nessuno ci fermò. Nessuno ci prestò neppure attenzione».
«Mi fece una certa impressione pensare che, se avessi avuto la pelle più scura – pur essendo cittadino italiano – avrei dovuto dimostrare di essere lì in vacanza e che non ero un “pericolo” per nessuno».
Un «confine geografico, ma anche in un certo senso morale», lo definisce Valerio. Ed è davvero così. Perché se il confine non esiste per tutte le persone, ma solo per alcune, e se queste vengono selezionate sulla base del fazzoletto di mondo in cui sono nate, allora il confine non può che essere morale. Quel confine dice molto più di noi, che il confine lo controlliamo – quasi fosse uno specchio della nostra morale, appunto, in cui ci riflettiamo -, di quanto dica di chi tenta di superarlo.
Resta solo da capire se, in quell’immagine riflessa, ci riconosciamo ancora.
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