Mentre tutta la comunità scientifica parlava di riscaldamento globale, quella appena passata era stata l’estate più fredda che avessimo mai vissuto. A maggio i sentieri alpini erano percorribili con le ciaspole. Non lo sapevamo, ma eravamo alle porte di una nuova era glaciale.
Da lì a pochi anni l’Unione europea non era più quella che ricordavamo. Proprio nel senso che non c’era più e non c’erano più nemmeno gli stati nazione che la componevano. C’erano nuove nazioni, ancor più nazioni. In nome del sovranismo – non ci sono risorse per tutti, soprattutto ora che l’estate non arrossisce più i pomodori – anche l’Italia era divisa in due, con due capitali, che non potevano che essere Roma e Milano.
E’ stato poco più a nord di Milano, a Lecco, per la precisione, che si sono presentati i primi. Erano alti, con la carnagione chiara e i capelli biondi, pallidi come se le loro estati non fossero più estati già da molto tempo. Avevano eluso i controlli al valico dello Spluga oltrepassando l’Emet e a piedi erano giunti fino a Chiavenna, trovando lungo la loro strada una gigantesca statua color oro della Madonna: «Nostra Signora d’Europa», c’era scritto. Da Chiavenna il treno, finché un controllore sospettoso non li aveva fatti scendere a Lecco. La libera circolazione dei primi anni duemila non l’avevano mai conosciuta, quelle persone.
«Dove li mettiamo quattro profughi scandinavi?», si chiedavano le autorità. «Ma saranno profughi?». A nord non esistevano più le istituzioni, non c’erano più passaporti, non c’era alcun governo, non si poteva rimpatriarli. «Milano non può farsene carico: avete visto cosa è successo settimana scorsa?» Un centinaio di persone avevano preso d’assalto un fornaio. «Conosco una caserma a Torino», disse balzando dalla sedia l’assessore. Era la caserma Dogali, che anni fa aveva già ospitato profughi eritrei (così diceva un sito internet), e che ancora prima, nel 1943, era stato un luogo di detenzione e tortura per chi era sospettato di appartenere al movimento di Resistenza al regime fascista (diceva sempre il sito internet). In pochi giorni, con decreto d’urgenza, avvenne la conversione. Un anziano signore distribuiva volantini in cui spiegava che anche in Eritrea i fascisti torturavano gli eritrei in campi di detenzione e che, successivamente, il regime eritreo aveva convertito, con decreto d’urgenza, quegli stessi campi in campi di detenzione e tortura per oppositori politici. «Ferro, Otto, Gesù Cristo», recitava, ricordando gli italianissimi nomi delle torture eritree. Lo etichettarono come pazzo.
In quel che rimaneva dell’Italia, tutto sommato, non si stava ancora così male. La Pianura padana cominciava a cedere alla neve perenne, ma a sud i pomodori crescevano ancora e una nuova spinta industriale sembrava offrire prospettive inesplorate. Quei finti rifugiati (in Scandinavia non c’era alcuna guerra), perciò, di rimanere in Svizzera non volevano saperne e di rimanere a Milano quasi. «Da Taranto a Crotone c’è un paese da costruire», era il mantra che recitavano tra di loro, alimentato da amici e parenti arrivati negli anni precedenti e che, in realtà, lavoravano in quei campi aridi, asciugati da tempeste di sabbia, e vivevano in baracche controllate da una fitta rete di caporali. Non lo raccontavano, però, a parenti e amici. Non raccontavano il loro fallimento e speravano, anzi, che quel sottile strato di ghiaccio che aveva cominciato a coprire il mar Ligure e il mare Adriatico avanzasse, avanzasse fino a quella zolla del continente africano che però era politicamente europea, un’isola chiamata Lampedusa. E chissà che da Lampedusa, in un modo o nell’altro.
Poco più a sud il processo geopolitico era stato inverso. Complice un cambiamento climatico favorevole, il nord Africa, affacciato sul Mediterraneo, stava vivendo una stagione di rinascita: l’Unione africana si era rivelata, finalmente, uno spazio di pace e di tutela dei diritti umani, oltre che di libera circolazione per le persone, i capitali e le merci. Democrazie mediterranee. Le temperature si erano abbassate ed era scomparso dalla cartina geografica quel tropico della violenza disegnato da conflitti e desertificazione.
La sera del 12 giugno il mare era piatto e a Tripoli si presentarono. Erano alti, con la carnagione chiara e i capelli biondi, pallidi. Raccontarono dei campi agricoli, che assomigliavano a campi di lavoro forzato. Di baracche e detenzioni e di essere stati drogati per sopportare la fatica. E picchiati. Una donna era stata stuprata. Di essere stati detenuti ancora, a Lampedusa, perché il governo di Roma, riconosciuto dalla comunità internazionale, aveva predisposto centri di accoglienza per migranti economici su molte isole. E così si passava dalla detenzione dei caporali alla detenzione del governo, lungo un filo nero, quello della tortura, che non sembrava avere interruzioni.
Il governo libico, d’accordo con la Commissione africana, quando vide che ad arrivare erano vere e proprie imbarcazioni, cariche di bianchi macilenti, di non ancora cadaveri, decise che erano troppi. Che tutti in Africa non ci stavano – figuriamoci in Libia, che non poteva diventare una discarica umana. E non c’era neanche la guerra, nei loro paesi. La soluzione più semplice fu scendere ad accordi con quel filo nero.
Non c’era nessuna guerra, eppure scappavano. Svedesi, norvegesi, danesi. E poi tedeschi, francesi, svizzeri e, infine, anche italiani. Attraverso passaggi alpini sempre più difficili. E i corpi ghiacchiati, al passo d’Emet, rimanevano sulla neve, come se si fossero addormentati e mai più risvegliati. Una transumanza che era colpa del naturale, geografico, protendersi dell’Italia verso la Libia. Quando riuscivano a fuggire dalle carceri italiane, era la stessa Guardia costiera italiana a intercettarli in mare, d’accordo con Tripoli. Ritornavano nei campi, dai caporali, e nelle prigioni, dai trafficanti d’uomini, e il filo della tortura si srotolava ancora sotto i loro piedi.
Un vecchio gridava al vento parole come «Cie, Cpr, hotspot», ma nessuno capì, e lo presero per pazzo.