La deportazione collettiva di 48 cittadini sudanesi, avvenuta nelle scorse ore, non è solamente un grave atto di violazione dei diritti umani: è soprattutto il frutto di una strategia ben precisa che ha come fine ultimo il contrasto delle rotte migratorie attraverso la chiusura dei confini e il rimpatrio delle persone, anche quando queste scappano da situazioni di violenza diffusa. Chiamiamolo “Migration compact”, che in inglese fa tanto moderno, o chiamiamolo “processo di Khartoum” (la capitale del Sudan, non a caso, snodo obbligatorio della rotta che parte dal corno d’Africa), ma le cose non cambiano: i governi dei paesi europei hanno deciso che la strada da seguire è questa. Di conseguenza gli “aiuti allo sviluppo” non diventano altro che finanziamenti a governi di dubbia democraticità (per usare un eufemismo) in cambio del controllo delle frontiere. È così che l’Europa controlla i propri confini, spostandoli in Africa. E se tre indizi fanno una prova, in questo caso abbiamo almeno una prova e mezza.
Il primo indizio, il più evidente: l’accordo stretto da Unione europea e Turchia, che prevede la deportazione in Turchia di tutti coloro che non siano siriani, in cambio di un siriano al momento presente in Turchia.
Il secondo: le dichiarazioni di Alfano delle scorse ore. Alfano propone (e non è la prima volta) di replicare l’accordo UE – Turchia con la Libia, nonostante la situazione ancor più critica in cui versa il paese nordafricano, di fatto precipitato nel caos istituzionale.
Il terzo: gli accordi tra governo italiano e governo sudanese, che prevedono una collaborazione nel rimpatrio degli “irregolari”, tanto che funzionari del governo sudanese erano presenti a Ventimiglia, e tanto che il governo italiano ha finanziato quello sudanese, lo scorso anno, con circa 545mila dollari, per costruire campi profughi in Sudan.
Il quarto: la politica dei respingimenti attuata dalla Svizzera. Dal confine Como – Chiasso arrivano notizie sempre più allarmanti, sia riguardo le possibilità di varcare la frontiera, sia riguardo il trattamento cui sono sottoposti i transitanti. La Svizzera, dal canto suo, se la prende con chi sta a nord: “se la Germania chiude il confine, allora lo facciamo anche noi”. Con la conseguenza che in stazione a Como sono accampati circa 400 migranti, perlopiù provenienti dal corno d’Africa: Eritrea, Somalia, Etiopia. Tra gli etiopi ci sono gli “oromo”, in particolare, come Feyisa Lilesa, il maratoneta che alle Olimpiadi ha alzato le braccia, ammanettate, sul traguardo, per manifestare contro i soprusi cui è sottoposto il suo popolo.
Il quinto, che tiene assieme tutto, si chiama appunto “Migration compact”, e non è altro che tutto ciò, di cui ora stiamo gustando un assaggio: money for refugees, senza però intervenire sulle cause delle migrazioni e con l’effetto che i refugees continueranno a scappare da quelle stesse dittature, da quella stessa fame, da quella stessa violenza che ci guardiamo bene dall’affrontare. E troveranno strade nuove: chiuso il confine ungherese, si guarda alla Croazia, e poi al Brennero, e a Como, e a Ventimiglia, e così via, con il risultato che i campi al confine stanno sorgendo anche da noi, con buona pace di chi invocava l’innalzamento di muri, senza capire che l’Italia si trova dalla parte “sbagliata” del muro, esposta com’è all’approdo via mare.
Como è solo l’ultimo caso. Persone in stazione che riposano per terra, tende nel parco poco fuori. Polizia ovunque, sia sul fronte italiano che su quello svizzero. Un ragazzo e una ragazza, l’altra sera, hanno tentato il passaggio a bordo del treno delle 00.08 sul quale mi trovavo anche io, venendo bloccati alla discesa a Chiasso: troppi agenti, treni posizionati in maniera strategica, passaggi obbligati. Farla franca e proseguire verso la Germania sembra impossibile. Lo stesso ragazzo, la mattina successiva, lo vedo negli uffici della polizia di frontiera italiana mentre viene invitato ad allontanarsi dagli agenti: direzione Como, stazione di Como, ovviamente. Al campo all’esterno della stazione la situazione non è delle migliori. La stessa sera era in corso una assemblea cui partecipavano volontari e migranti, e dagli interventi ascoltati una cosa pare chiara: l’intenzione è quella di rimanere, di riprovare, di attendere il varco giusto e il momento giusto. La politica cittadina risponde con la proposta di allestire un campo nelle vicinanze, ma per entrarvi ci si dovrà registrare, e con il regolamento di Dublino vigente saranno in pochi a farlo. C’è un piccolo infopoint tra le tende. Lì vicino dei ragazzi giocano con un pallone. L’inverno non è poi così lontano.